Sunday, 27 May 2018

Stiamo ancora imparando da Basaglia


Titolo: Il Post modernismo

Autori: Rex Haigh
Traduttore: Laura Liverotti

Luogo: Forum di Catania - 25.05.2018



Il Postmodernismo

In una comunita’ terapeutica, affinche’ si possa lavorare in modo efficace, c’e’ bisogno di usare modalita’ che differiscono da quelle adottate per esempio nell’istituzione della Psichiatria Biomedica.

Recentemente, ho letto un libro che parla in modo molto approfondito di Franco Basaglia, scritto da uno storico Britannico di nome John Foot. Devo dire che la sua storia offre molto di piu’ di quello che pensavo e, l’esperienza italiana di cio’ che viene definito l’antipsychiatry’ (l’anti-psichiatria), continua ad avere ancora una certa rilevanza nel contesto attuale, a differenza dei lavori di Laing, per i quali non e’ piu’ cosi’ in Gran Bretagna.

Quando ho letto di Mario Tomassini di Parma e di Giovanni Jervis di Reggio Emilia ho pensato ‘questo e’proprio quello che stiamo cercando di fare al momento in Slough ed Oxford. Siamo forse piu’ vicini ai principi che provengono da Gorizia che a quelli proposti dalla Kingsley Hall.

Percio’ in questo mio internvento, usufruendo del pensiero critico del Postmodernismo, provero’ a raggruppare insieme alcune di quelle tematiche che riguardano il lavoro di comunita’ terapeutiche e degli ambienti abilitanti.

Attualmente, viviamo in sistemi che sono altamente gestiti da politiche, procedure e protocolli. Al contrario, le comunita’ terapeutiche hanno bisogno di flessibilita’ e di spontanieta’ (e di creativita’). Questo pero’ e’ difficile da mantenere nella scia di richieste sempre piu’ esigenti di protocolli standardizzati e manualizzati. Uno dei modi che attualmente viene utilizzato in Gran Bretagna e’ chiamato ‘relational practice’ (pratica delle relazioni) piuttosto che ‘procedural practice’ (pratica della procedura). In un mondo dove le persone si aspettano soluzioni mediali per ogni problema, numerose regolamentazioni ed una tolleranza ‘zero’ riguardo al rischio, cio’ che e’ umano ed ordinario e’ stato perso. E quello che che e’ stato perso ha un ruolo centrale nella relazione terapeutica, e qui non parlo necessariamente della conoscenza dell’analista, bensi’ mi riferisco all’aspetto umano ed all’ordinarieta’ del convivere l’uno con l’altro. O, come per esempio, le persone non trovino facile rilassarsi ed essere informali l’uno con l’altro sul posto di lavoro. Il personale clinico e’ spesso reso ansioso dal dover applicare ed aderire correttamente alle ‘prescrizioni del manuale’, o se il ‘livello di rischio’ e’ stato annotato sul computer dell’ospedale. Una parola che usiamo per descrivere cio’ che manca e’ la “therapeutic ordinariness” (ordinarieta’ terapeutica) - ed il progetto ‘Enabling Environment’ si basa prorio sui principi di questa ‘’relational practice’ (pratica delle relazioni).

La prima volta che ne ho sentito parlare fu nel 1978, quando, all’epoca studente di medicina, attendevo le lezioni di Science Sociali condotte da David Ingleby. Lui era uno scienziato sociale radicale all’Universita’ di Cambridge, e quello era proprio l’anno in cui la Legge 180 fu passata qui in Italia. A quel tempo, Ingleby stava scrivendo un libro dove spiegava come la malattia mentale fosse primariamente un problema politico e getto’ dubbi riguardo le affermazioni fatte circa l’oggettivita’ scentifica, proponendo metodi qualitativi piu’ precisi con l’obiettivo di ottenere un maggiore livello di significato dai punti di vista fenomenologico ed interpretativo (David Ingleby usa il termine ‘depth hermeneutics’ e lo relaziona alla comprensione psicoanalitica). In questo modo ci propone una visione della sofferenza mentale che e’ piu’ vicina all’esperienza del paziente e meno contaminata dall’ineguaglianza e dal divario di potere intrinsechi alla pratica clinica. Nonostante al tempo non ne fossi a conoscenza, cio’ e’ molto vicino a quello che Basaglia promuoveva in Italia. Il libro fu pubblicato nel 1980 e si intitola “Critical Psychiatry”. L’importanza di questa esperienza soggettiva del paziente e’ diventata un aspetto centrale nel movimento dei ‘service users empowerment’ (responsabilizzazione degli utenti), ed e’ stato uno dei principi fondamentali delle comunita’ terapeutiche sin dai suoi albori: un modo che ha ri-bilanciato il concetto di potere. Negli ultimi 15 anni, nel movimento britannico c’e’ di forte tendenza a “ri-definire” i servizi pubblici, sia nel settore sanitario che forensico, per coloro che hanno una diagnosi di Disturbo di Personalita’.

In Gran Bretagna, intorno agli anni ’70, Ronald Laing era visto come il trascinatore del movimento dell’ ‘antipsychiatry’, ma come Franco Basaglia, anche lui negava di vuolersi sbarazzare della Psichiatria, anche se la vuoleva cambiare. L’obbiettivo di Laing era quello di voler capire piu’ approfonditamente le esperienze del paziente: per quanto ho capito, il proposito principale di Basaglia ed la sua equipe era, prima di tutto, di sviluppare una comunita’ terapeutica a Gorizia cosiche’ da offrire ai pazienti condizioni piu’ umane, e susseguentemente di smantellare le grandi istituzioni. Tuttocio’ avveniva nel contesto della rivoluzione giovanile degli anni ’60, che rese tutto molto piu’ intenso e politico e confuso. Comunque entrambi, Laing e Basaglia, ci stavano mostrando come le realta’ sociali, politiche e culturali svolgono un ruole vitale in aiutarci a comprendere la sofferenza e l’esperienza della pazzia, e di come allo stesso tempo dovremmo e non dovremmo rispondergli. 

Nonostante le grandi istituzioni siano ormai chiuse da anni, in Italia come nella Gran Bretagna, il problema legato all’ ‘institutional thinking’ (pensiero istituzionale) continua a manifestarsi in modi diversi. Nessuno e’piu’ legato con catene o trattato come un animale, ma continua a soffrire della degradazione, della mancanza di emancipazione/responsabilizzazione e di rispetto, sentendosi cosi’, oppresso, alienato e come un cittadino di seconda categoria. Non sono necessari vecchi edifici per avere relazioni deleterie con coloro che si trovano in uno stato di bisogno. Io chiamo cio’ ‘institutionalisation in the head’ (l’istituzionalizzazione nella testa). I procedimenti che sostengono questo sono quelli  moderni delle regolamentazioni, della standardizzazione e del controllo sociale che rendono l’assistenza sociale simile ad una procedura industriale invece di essere umana e basata sulla speranza, la fiducia e le relazioni vere. Il lavoro attuale della Psichiatria, nel peggiore delle ipotesi, e’ quello di diagnosticare e prescrivere i farmaci necessari, e di evitare rischi. Purtroppo l’idea che il miglior modo per limitare i rischi sia quello di sviluppare e mantenere rapporti terapeutici, non e’ riconosciuta come valida. Questa e’ una delle idee alla base della ‘Critical Psychiatry’ (Psichiatria Critica), che a sua volta segue la scia dell’ antipsychiatry (anti-psichiatria) di 50 anni fa.



Alla fine dello scorso millennio, nel 1999, Greenhalgh e Hurwitz scrivevano proprio riguardo a quello che e’ stato perso:

“All’apice piu’ arido, la medicina moderna scarseggia di una metrica per misurare le qualita’ esistenziali come il dolore interiore, e che certamente costituiscono le malattie di cui le persone soffrono. Durante la formazione medica, la continua sostituzione di quelle abilita’ considerate “scientifiche” - quelle che sono eminentemente misurabili ma inevitabilmente riduzionistiche - con quelle che sono fondamentalmente linguistiche, empatiche ed interpretative, dovrebbero essere viste come aspetti vittoriosi del curriculum moderno.



Bradley Lewis, uno psichiatra americano, promouove il metodo narrativo nella Psichiatria (Lewis, 2011):

“Questo e’ il momento della ricerca dell’anima per la Psichiatria. Nonostante gli investimenti che la Psichiatria ha fatto in creare classificazioni rigorose e nella Neuroscienza, il campo attualmente sta riscontrando opposizione e critiche reminescenti quelli degli anni sessanta e settanta. Il giornalismo investigativo, i consumatori ed gli attivisti della riabilitazione, gli accademici nelle Scienze Umanistiche, Scienze Sociali e gli studi sulla disabilita’, ed i networks della ‘Critical Psychiatry’, esperimono tutti  una crescente preoccupazione sul fatto che questo dsciplina abbia smarrito la sua strada.”



La maggior parte del lavoro all’interno della nostra comunita’ terapeutica riguarda i costrutti narrativi , sia per ragioni storiche, che guardano alle ragioni per cui i suoi membri sono ‘finiti li’, sia per la storia del loro percorso come membri di comunita’ e di come cio’ abbia un impatto sia su loro stessi che su coloro a cui vivono insieme. Il gruppo di ammissione (che e’ parte del nostro processo di ammissione all’interno della comunita’) e’ il momento in cui la narrativa circa il “perche’ ho bisogno di essere qui” diviene cristallizata in una sessione di mezz’ora con il resto della comunita’.  Cio’ ha una profonda valenza terapeutica, e cioe’ quella di creare il senso di appartenenza  e di attaccamento, insieme a quello di comunicare informazioni importanti. Obbiettivi simili sono ottenuti anche quando, usando una modalita’ simile a quella descritta, si vanno a valutare i progressi raggiunti dai residenti della comunita’; cio’ infatti non deve essere vista soltanto come un ostacol o una formalita’ amministrativa, bensi’ un’ esposizione inevitabile, difronte al resto del gruppo, di quei sentimenti legati ai propri miglioramenti ottenuti all’interno della comunita’ terapeutica; nonche’ un’opportunita’ per i nuovi arrivati di vedere il tipo di narrativa che potrebbero essere in grado di generare per loro stessi.

Questo problema ontologico puo’ essere osservato da un angolo diverso e cioe’ come il ruolo del dubbio, di una narrativa complessa ed il graduale sviluppo delle conclusioni ed azioni siano oscurate da una visione digitale - 0/1, si’-o-no - di cio’ che e’ corretto. E’ come se ci fosse una tolleranza zero riguardo all’incertezza. I metodi ermeneutici e qualitativi, i fattori relazionali, le variabili contestuali ed altre distrazioni che permettono all’incertezza di emergere, sono viste come un’interferenza nell’algoritmo, e percio’ negate di ogni rilevanza significativa. Questo bisogno di certezza si nasconde dietro ai paradigmi dominanti della ricerca, e piu’ chiaramente nella gerarchia delle evidenze.

Al fine di trovare quelle prove che siano accettabili cosiche’ da influenzare le direttive nazionali sui trattamenti, una terapia deve far si’ che le sue evidenze trovino un posto, il piu’ alto possibile, all’interno di questo ordine gerarchico.  L’evidenza ‘gold standard’ e’ una meta-analisi dei randomised control trials di alta qualita’. Tra una vasta gamma di trattamenti psicologici che competono affinche’ vengano riconosciuti e finanziati, la richiesta di evidenze accettabili porta ad una mentalita’ tipo quella dei concorsi di bellezza, dove i trattamenti sono definiti, attuati, pubblicizzati e messi sul mercato come prodotti facili da replicare. Queste terapie, allo stesso modo,  possono essere cosi’ trascritte sottoforma di manuali ed essere passate attraverso il processo piu’ adatto di raccolta di dati. Steve Pearce, un collega di Oxford, che e’ anche uno Psicoterapeuta medico che lavora in comunita’ terapeutiche, ha intrapreso questa sfida e, nel 2016 ha pubblicato nel British Journal of Psychiatry, i risultati del suo studio sui gruppi randomizzati all’interno di comunita’ terapeutiche non-residenziali. In un certo senso penso che abbia fatto l’impossibile, ed allo stesso tempo forse ha anche aiutato la sopravvivenza delle comunita’ terapeutiche britanniche. Penso che gli organizzatori di questo incontro, lo vorrebbero invitare a Roma l’anno prossimo, cosiche’ possa parlare del suo studio.

Ho comunque delle riserve circa questo processo di ricerca; la prima riguarda la stretta somiglianza con gli studi sui farmaci condotti dalle industrie farmaceutiche; la seconda riguarda l’inadeguatezza di questo modello cosi’ rigido ed inflessibile. Inoltre lo vedo come parte di un progetto commerciale neoliberale con l’intento di confezionare e promuovere i trattamenti di psicoterapia come se fossero comodita’ che possono essere acquistate in un negozio. Penso che questo sia un esempio di economia di mercato usata in un ambito nel quale non dovrebbero, e vengono sostenute da un tipo di scienza positivista che, a sua volta, e’ usata in contesti in cui non e’ adeguata. 

Comunque, segnali di un metodo piu’ sofisticato e flessibile stanno emergendo, in cui la ‘qualita’ della prova’ sta divenendo un concetto piu’ complesso. Nel 2016, Steenkamp sostiene che le scelte di trattamento, in linea con i principi fondamentali della pratica clinica basata sulle evidenze, dovrebbe essere basata su tre principi:

·        La prova migliore
·         
·        La scelta del paziente, e
·         
·        L’espereinza clinica
·         
Inoltre, sostiene che, a parte il facilitare una processo decisionale condiviso, una sceta piu’ adatta e’ possibile; per esempio quella tra i fattori specifici legati ai pazienti ed i trattamenti disponibili. Cio’ sta a simbolizzare uno spostamento significativo da quella che e’ l’inflessibilita’ delle scelte del trattamento algoritmico, basate solamente sui trattamenti standardizzati ed ‘pazienti uniformati’.

Un fattore che limita ulteriormente il valore degli studi competitivi e’ la scoperta di come terapie specifiche diverse possono essere ugualmente efficaci e che la loro efficacia dipenda maggiormente da ‘fattori terapeutici non-specifici’ che sul tipo di terapia in se stesso. Questo e’ stato dimostrato molte volte, e risale al verdetto del ‘Dodo-Bird’ (dove tutti hanno vinto ed ognuno dove avere un premio). Questo fu sostenuto per la prima volta nel 1936 da Rosenweig, poi  dimostrato con la ricerca di Luborsky nel 1975, e da allora continua ad essere elaborato in modi diversi. Per esempio Lambert, nel 1992, mostra le percentuali relative ai diversi fattori presenti nei trattamenti psicosociali:

·        La relazione terapeutica 30%
·         
·        I fattori esterni 40 %, e
·         
·        L’aspettative di/l’effetto placebo 15%, lasciando
·         
·        alle specifiche tecniche terapeutiche il rimanente 15% di impatto sull’efficacia
·         


La mia preoccupazione e’ che questo e’ un po’ come la questione degli angeli che danzano sulla capocchia di uno spillo. Sappiamo che la salute e la felicita’ dell’ individuo consiste nella capacita’ di relazionarsi agli altri, e la ricerca moderna non da’ a questo aspetto - l’ ‘a priori’ - la priorita’ necessaria.

La considerevole e contestata letteratura che critica la ‘evidence-based practice’ va aldila’ dello scopo di questo intervento, comunque voglio dire che la tendenza verso l’accettare solo ricerche standardizzate ed aggregate di campioni sempre piu’ grandi sta dirigendosi nella direzione sbagliata, in quanto si sta allontanando da quella che e’ la comprensione dell’importanza delle relazioni umane. E sono proprio le comunita’ terapeutiche che rischiano di soffrirne di piu’ di questo. Al contrario di poter essere applicabili in modo uniforme su una vasta popolazione, le comunita’ terapeutiche sono fondamentalmente complesse e, in un certo senso, hanno anche in che di caotico. Questo pero’, nel vero senso della parola, e’ dove la sua complessita’ porta allo sviluppo di ‘fenomeni emergenti’ (spesso non intezionali) e di un sistema ‘caotico’ che, come il tempo, non puo’ essere previsto da statistiche deterministiche, aldila’ del loro grado di sofisticazione. In questo sistema, ogni individuo e’ riconosciuto per le sue differenze - la sua unicita’ e specificita’ per esempio - e non per la sua diagnosi. Cosi’ come, ad un livello successivo, ogni comunita’ terapeutica e’ orgogliosamente diversa l’una dall’altra, rendendo la specificita’ della ricerca uniformata quasi impossibile. Per questo motivo abbiamo bisogno di un tipo di ricerca diverso, ed anche se credo che ancora non sappiamo esattamente di come questo sia, al momento ci sono progetti di ricerca non-biomedica molto interessanti.

Una ricerca piu’ co-ordinata richiede un maggiore sforzo in quanto ha bisogno di sostegno sia organizzativo che di quello finanziario. In questo campo, il sociologo Nick Manning ha evidenziato una ‘politics of data’ (politica dei dati), il cui risultato e’ stato quello di non prendere le comunita’ terapeutiche come oggetto di studio di ricerca e, che di consequenza non hanno ricevuto finanziamenti da parte di quelle ‘istituzioni di ricerca’ appartenenti al campo biomedio o psicologico. Questo tipo di ricerca, siccome non raccoglie i dati secondo le modalita’ previste, non ottiene finanziamenti governativi; e senza tenere in considerazione coloro che revisionano articoli per riviste scientifiche, i quali probabilmente non accetterebbero articoli considerati ‘dissidenti’. Per questo motivo, la visibilita’ delle comunita’ terapeutiche nella letteratura di ricerca convenzionale e’ scarsa.

Comunque, c’e’ da dire che grazie ai recenti progetti di ricerca portati avanti dagli utenti (service users led research) forse c’e’ spazio per un po’ di ottimismo. Questi studi, seguendo metodi rigorosi e sistematici, pongono una notevole attenzione all’esperienza di coloro che si trovano in posizioni svantaggiose, e fanno fronte a quei temi che, sia i clinici che gli accademici, hanno in precedenza evitato. Questo va di paripasso con la ricerca in psicoterapia e gli studi sulla sua efficacia, secondo cui i risultati sono validi solo in certe condizioni che non esistono nel mondo reale. Questo e’ un buon momento per le comunita’ terapeutiche ed e’ cosi’ da un po’ di tempo. Qui, tutto cio’ che avviene - i nostri colleghi di ‘Open Dialogue’ chiamano cio’ ‘polyphony’ (polifonia) - e’ visto come un’opportunita’ per dialoghi che offrono spiegazioni molteplici ma dove nessuna di queste ha lo stato di verita’ assoluta; e dove, le opinioni di ogni individuo offrono esperienze differenti che a loro volta possono poi essere usate cone spunto di lavoro in terapia; e dove, le scelte e le decisioni sono prese secondo una specie di ‘emotional democracy’ (democrazia emotiva).

Tutto cio’per dire che le relazioni umane, ed in particolare quelle che si formano all’interno delle comunita’ terapeutiche, non possono essere “modernised” (modernizzate) secondo protocolli precisi, regole e controlli di conformita’. Queste rimarranno inevocabilmente complicate, difficili ed incerte, ma allo stesso tempo variopinte, emozionanti e divertenti. Questa e’ sicuramente una delle ragioni per cui non vorrei mai lavorare in ambienti clinici tradizionali dopo aver lavorato una vita all’interno di comunita’ terapeutiche.

Questo e’ tutto sulla Postmodernita’. Adesso invece, per la parte conclusiva di questo mio intervento, vorrei proporre l’idea che le comunita’ terapeutiche sono un esempio eccellente di pratica clinica post-moderna e dovremmo essere in grado di usarlo a nostro favore. In un certo senso, la miglior definizione della postmodernita’ che conosco e’ quella di Jean-Francois Lyotard: “NO GRAND NARRATIVES” (Lyotard, 2001). Sia il tradizionalismo che la modernita’ hanno le loro “grand narrative”, fatte di spiegazioni onnicomprensive che hanno l’obbiettivo di giustificare il tutto, predire cio’ che accadra’ ed avere tutto chiaro ed ordinato – igenizzato, contenuto e senza stati anziosi. Il Post-modernismo riconosce che cio’ e’ impossibile.

Da un punto di vista clinico, questo produce paradossi come quello del fenomeno della ‘overconfidence’ (presunzione/eccessiva sicurezza). Per esempio, come quando un membro del personale, e’ sicuro di fare la cosa giusta, probabilmente ‘sta sbagliando’! E forse, cio’ che accade secondo un meccanismo relazionale, e’ che lo stesso membro del personale appare agli altri come se non fosse intenzionato ad aprirsi emotivamente (perche’ cosi’ sicuro di essere nel giusto). Cio’ comunque conduce alla inevitabile conclusione che forse non e’possibile ‘essere sempre nel giusto’.

Un altro aspetto clinico del “no grand narratives” e’ come i membri delle nostre comunita’, specialmente coloro che hanno ottenuto un certo grado di autonomia, non sono molto propensi ad ascoltare quando gli viene detto che cos’e’ meglio per loro o che tipo di sentimenti stanno provando. Queste persone possono farsi idee da una vasta gamma di stimoli che, per esempio, includono le loro esperienze personali, l’internet, i libri di auto-aiuto, l’arte, i racconti dettagliati e profondi degli amici ed infine gli esperti. Comunque c’e’ da dire che adesso gli esperti non hanno piu’ l’ultima parola.

In un’era caratterizzata dalla ‘New Public Management’ (Nuova Gestione Pubblica), viviamo in un mondo dominato dalla modernita’. Tutte quelle organizzazioni finanziate dal pubblico, dai servizi sanitari alle universita’ ai servizi sociali, devono dimostrare sia responsabilita’ che transparenza rispetto alle specifiche strutture e sistemi di regolamentazione governativi. Questo e’ una modalita’ monotona che manca di creativita’, e spero che le comunita’ terapeutiche possano offrire qualcosa di diverso ai nostri membri, al personale ed all’organizzazione in cui lavoriamo.

Allora, proviamo a dividere i vari approcci verso la salute mentale in tre categorie:  tradizionali, moderni e post-moderni. L’approccio ‘Tradizionale’ che e’ il vecchio sistema del manicomio e delle grandi istituzioni con gerarchie rigide e dove il potere e’ tutto nelle mani dei professionisti, di solito i dottori. L’approccio ‘Moderno’ e’ quello del ‘New Public Management’ o, come alcuni lo chiamano, ‘performativity’ (la migliore performance), dove tutto e’ stabilito e controllato con esattezza, dove ci sono protocolli scritti per ogni variazione/divergenza od eccezione fatta o per qualsiasi inadempienza, e dove l’efficacia, la performance ed i risultati possono essere esattamente misurati e verificati. Qui il potere e’ nel sistema che e’ democraticamente responsabile. Infine, l’approccio ‘Post-moderno’ che e’ molto piu’ difficile e critico, e molto piu’ simile alle caratteristiche delle comunita’ terapeutiche che ho descritto. Ma siccome e’ basato sulle relazioni umane, nonstante la sua creativita’, spontaneita’ ed anche forse un po’ di anarchia, e’ in un certo senso il piu’ difficile da gestire. Ma forse sono proprio questi gli aspetti che rendono la vita degna di essere vissuta o un lavoro degno di essere fatto. Qui, il potere e’ fluido anche se deve essere contenuto all’interno di una struttura contenitiva.

Per concludere, vorrei che tutti noi celebrassimo questo modo di lavorare che segue il ‘Moral Treatment’ (il trattamento morale) del 18esimo secolo quando pochi illuminati riconobbero che le persone con disturbi di salute mentale avevano bisogno di essere trattati come esseri umani. Questo stesso pensiero fu ancora una volta rivisitato negli anni ’60 con il movimento italiano ed inglese dell’antipsychiatry.

Oggi, 50 anni piu’ tardi, cerchiamo di fare la stessa cosa. Lo stiamo ancora facendo nelle comunita’ terapeutiche e negli Enabling Environments (ambienti abilitanti), ed anche qui in Sicilia con il Visiting Project. Credo che adesso sappiamo come costruire la struttura contenitiva all’interno della quale, il potere dello Psichiatra puo’ essere esercitato con compassione ed umanita’.



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