Titolo: Il
Post modernismo
Autori: Rex
Haigh
Traduttore: Laura Liverotti
Luogo: Forum di Catania - 25.05.2018
Il
Postmodernismo
In una comunita’ terapeutica, affinche’ si possa lavorare
in modo efficace, c’e’ bisogno di usare modalita’ che differiscono da quelle
adottate per esempio nell’istituzione della Psichiatria Biomedica.
Recentemente, ho letto un libro che parla in modo molto
approfondito di Franco Basaglia, scritto da uno storico Britannico di nome John
Foot. Devo dire che la sua storia offre molto di piu’ di quello che pensavo e,
l’esperienza italiana di cio’ che viene definito l’antipsychiatry’
(l’anti-psichiatria), continua ad avere ancora una certa rilevanza nel contesto
attuale, a differenza dei lavori di Laing, per i quali non e’ piu’ cosi’ in
Gran Bretagna.
Quando ho letto di Mario Tomassini di Parma e di Giovanni
Jervis di Reggio Emilia ho pensato ‘questo e’proprio quello che stiamo cercando
di fare al momento in Slough ed Oxford. Siamo forse piu’ vicini ai principi che
provengono da Gorizia che a quelli proposti dalla Kingsley Hall.
Percio’ in questo mio internvento, usufruendo del
pensiero critico del Postmodernismo, provero’ a raggruppare insieme alcune di
quelle tematiche che riguardano il lavoro di comunita’ terapeutiche e degli
ambienti abilitanti.
Attualmente, viviamo in sistemi che sono altamente
gestiti da politiche, procedure e protocolli. Al contrario, le comunita’
terapeutiche hanno bisogno di flessibilita’ e di spontanieta’ (e di
creativita’). Questo pero’ e’ difficile da mantenere nella scia di richieste sempre
piu’ esigenti di protocolli standardizzati e manualizzati. Uno dei modi che
attualmente viene utilizzato in Gran Bretagna e’ chiamato ‘relational practice’
(pratica delle relazioni) piuttosto che ‘procedural practice’ (pratica della
procedura). In un mondo dove le persone si aspettano soluzioni mediali per ogni
problema, numerose regolamentazioni ed una tolleranza ‘zero’ riguardo al
rischio, cio’ che e’ umano ed ordinario e’ stato perso. E quello che che e’
stato perso ha un ruolo centrale nella relazione terapeutica, e qui non parlo
necessariamente della conoscenza dell’analista, bensi’ mi riferisco all’aspetto
umano ed all’ordinarieta’ del convivere l’uno con l’altro. O, come per esempio,
le persone non trovino facile rilassarsi ed essere informali l’uno con l’altro sul
posto di lavoro. Il personale clinico e’ spesso reso ansioso dal dover applicare
ed aderire correttamente alle ‘prescrizioni del manuale’, o se il ‘livello di
rischio’ e’ stato annotato sul computer dell’ospedale. Una parola che usiamo
per descrivere cio’ che manca e’ la “therapeutic ordinariness” (ordinarieta’
terapeutica) - ed il progetto ‘Enabling Environment’ si basa prorio sui
principi di questa ‘’relational practice’ (pratica delle relazioni).
La prima volta che ne ho sentito parlare fu nel 1978, quando,
all’epoca studente di medicina, attendevo le lezioni di Science Sociali
condotte da David Ingleby. Lui era uno scienziato sociale radicale
all’Universita’ di Cambridge, e quello era proprio l’anno in cui la Legge 180
fu passata qui in Italia. A quel tempo, Ingleby stava scrivendo un libro dove
spiegava come la malattia mentale fosse primariamente un problema politico e
getto’ dubbi riguardo le affermazioni fatte circa l’oggettivita’ scentifica,
proponendo metodi qualitativi piu’ precisi con l’obiettivo di ottenere un
maggiore livello di significato dai punti di vista fenomenologico ed
interpretativo (David Ingleby usa il termine ‘depth hermeneutics’ e lo
relaziona alla comprensione psicoanalitica). In questo modo ci propone una
visione della sofferenza mentale che e’ piu’ vicina all’esperienza del paziente
e meno contaminata dall’ineguaglianza e dal divario di potere intrinsechi alla
pratica clinica. Nonostante al tempo non ne fossi a conoscenza, cio’ e’ molto
vicino a quello che Basaglia promuoveva in Italia. Il libro fu pubblicato nel
1980 e si intitola “Critical Psychiatry”. L’importanza di questa esperienza
soggettiva del paziente e’ diventata un aspetto centrale nel movimento dei
‘service users empowerment’ (responsabilizzazione degli utenti), ed e’ stato
uno dei principi fondamentali delle comunita’ terapeutiche sin dai suoi albori:
un modo che ha ri-bilanciato il concetto di potere. Negli ultimi 15 anni, nel
movimento britannico c’e’ di forte tendenza a “ri-definire” i servizi pubblici,
sia nel settore sanitario che forensico, per coloro che hanno una diagnosi di
Disturbo di Personalita’.
In Gran Bretagna, intorno agli anni ’70, Ronald Laing era
visto come il trascinatore del movimento dell’ ‘antipsychiatry’, ma come Franco
Basaglia, anche lui negava di vuolersi sbarazzare della Psichiatria, anche se
la vuoleva cambiare. L’obbiettivo di Laing era quello di voler capire piu’
approfonditamente le esperienze del paziente: per quanto ho capito, il
proposito principale di Basaglia ed la sua equipe era, prima di tutto, di
sviluppare una comunita’ terapeutica a Gorizia cosiche’ da offrire ai pazienti
condizioni piu’ umane, e susseguentemente di smantellare le grandi istituzioni.
Tuttocio’ avveniva nel contesto della rivoluzione giovanile degli anni ’60, che
rese tutto molto piu’ intenso e politico e confuso. Comunque entrambi, Laing e
Basaglia, ci stavano mostrando come le realta’ sociali, politiche e culturali
svolgono un ruole vitale in aiutarci a comprendere la sofferenza e l’esperienza
della pazzia, e di come allo stesso tempo dovremmo e non dovremmo
rispondergli.
Nonostante le grandi istituzioni siano ormai chiuse da
anni, in Italia come nella Gran Bretagna, il problema legato all’
‘institutional thinking’ (pensiero istituzionale) continua a manifestarsi in
modi diversi. Nessuno e’piu’ legato con catene o trattato come un animale, ma
continua a soffrire della degradazione, della mancanza di
emancipazione/responsabilizzazione e di rispetto, sentendosi cosi’, oppresso,
alienato e come un cittadino di seconda categoria. Non sono necessari vecchi
edifici per avere relazioni deleterie con coloro che si trovano in uno stato di
bisogno. Io chiamo cio’ ‘institutionalisation in the head’
(l’istituzionalizzazione nella testa). I procedimenti che sostengono questo
sono quelli moderni delle
regolamentazioni, della standardizzazione e del controllo sociale che rendono
l’assistenza sociale simile ad una procedura industriale invece di essere umana
e basata sulla speranza, la fiducia e le relazioni vere. Il lavoro attuale
della Psichiatria, nel peggiore delle ipotesi, e’ quello di diagnosticare e
prescrivere i farmaci necessari, e di evitare rischi. Purtroppo l’idea che il
miglior modo per limitare i rischi sia quello di sviluppare e mantenere
rapporti terapeutici, non e’ riconosciuta come valida. Questa e’ una delle idee
alla base della ‘Critical Psychiatry’ (Psichiatria Critica), che a sua volta segue
la scia dell’ antipsychiatry (anti-psichiatria) di 50 anni fa.
Alla fine dello scorso millennio, nel 1999, Greenhalgh e
Hurwitz scrivevano proprio riguardo a quello che e’ stato perso:
“All’apice piu’ arido, la
medicina moderna scarseggia di una metrica per misurare le qualita’
esistenziali come il dolore interiore, e che certamente costituiscono le
malattie di cui le persone soffrono. Durante la formazione medica, la continua
sostituzione di quelle abilita’ considerate “scientifiche” - quelle che sono
eminentemente misurabili ma inevitabilmente riduzionistiche - con quelle che
sono fondamentalmente linguistiche, empatiche ed interpretative, dovrebbero
essere viste come aspetti vittoriosi del curriculum moderno.
Bradley Lewis, uno psichiatra americano, promouove il
metodo narrativo nella Psichiatria (Lewis, 2011):
“Questo e’ il momento della
ricerca dell’anima per la Psichiatria. Nonostante gli investimenti che la
Psichiatria ha fatto in creare classificazioni rigorose e nella Neuroscienza,
il campo attualmente sta riscontrando opposizione e critiche reminescenti
quelli degli anni sessanta e settanta. Il giornalismo investigativo, i consumatori
ed gli attivisti della riabilitazione, gli accademici nelle Scienze Umanistiche,
Scienze Sociali e gli studi sulla disabilita’, ed i networks della ‘Critical
Psychiatry’, esperimono tutti una
crescente preoccupazione sul fatto che questo dsciplina abbia smarrito la sua
strada.”
La maggior parte del lavoro all’interno della nostra comunita’
terapeutica riguarda i costrutti narrativi , sia per ragioni storiche, che
guardano alle ragioni per cui i suoi membri sono ‘finiti li’, sia per la storia
del loro percorso come membri di comunita’ e di come cio’ abbia un impatto sia
su loro stessi che su coloro a cui vivono insieme. Il gruppo di ammissione (che
e’ parte del nostro processo di ammissione all’interno della comunita’) e’ il
momento in cui la narrativa circa il “perche’ ho bisogno di essere qui” diviene
cristallizata in una sessione di mezz’ora con il resto della comunita’. Cio’ ha una profonda valenza terapeutica, e
cioe’ quella di creare il senso di appartenenza e di attaccamento, insieme a quello di
comunicare informazioni importanti. Obbiettivi simili sono ottenuti anche
quando, usando una modalita’ simile a quella descritta, si vanno a valutare i
progressi raggiunti dai residenti della comunita’; cio’ infatti non deve essere
vista soltanto come un ostacol o una formalita’ amministrativa, bensi’ un’
esposizione inevitabile, difronte al resto del gruppo, di quei sentimenti
legati ai propri miglioramenti ottenuti all’interno della comunita’ terapeutica;
nonche’ un’opportunita’ per i nuovi arrivati di vedere il tipo di narrativa che
potrebbero essere in grado di generare per loro stessi.
Questo problema ontologico puo’ essere osservato da un
angolo diverso e cioe’ come il ruolo del dubbio, di una narrativa complessa ed
il graduale sviluppo delle conclusioni ed azioni siano oscurate da una visione
digitale - 0/1, si’-o-no - di cio’ che e’ corretto. E’ come se ci fosse una
tolleranza zero riguardo all’incertezza. I metodi ermeneutici e qualitativi, i
fattori relazionali, le variabili contestuali ed altre distrazioni che
permettono all’incertezza di emergere, sono viste come un’interferenza
nell’algoritmo, e percio’ negate di ogni rilevanza significativa. Questo
bisogno di certezza si nasconde dietro ai paradigmi dominanti della ricerca, e
piu’ chiaramente nella gerarchia delle evidenze.
Al fine di trovare quelle prove che siano accettabili cosiche’
da influenzare le direttive nazionali sui trattamenti, una terapia deve far si’
che le sue evidenze trovino un posto, il piu’ alto possibile, all’interno di
questo ordine gerarchico. L’evidenza
‘gold standard’ e’ una meta-analisi dei randomised control trials di alta
qualita’. Tra una vasta gamma di trattamenti psicologici che competono
affinche’ vengano riconosciuti e finanziati, la richiesta di evidenze
accettabili porta ad una mentalita’ tipo quella dei concorsi di bellezza, dove
i trattamenti sono definiti, attuati, pubblicizzati e messi sul mercato come
prodotti facili da replicare. Queste terapie, allo stesso modo, possono essere cosi’ trascritte sottoforma di
manuali ed essere passate attraverso il processo piu’ adatto di raccolta di dati.
Steve Pearce, un collega di Oxford, che e’ anche uno Psicoterapeuta medico che
lavora in comunita’ terapeutiche, ha intrapreso questa sfida e, nel 2016 ha
pubblicato nel British Journal of Psychiatry, i risultati del suo studio sui
gruppi randomizzati all’interno di comunita’ terapeutiche non-residenziali. In
un certo senso penso che abbia fatto l’impossibile, ed allo stesso tempo forse
ha anche aiutato la sopravvivenza delle comunita’ terapeutiche britanniche. Penso
che gli organizzatori di questo incontro, lo vorrebbero invitare a Roma l’anno
prossimo, cosiche’ possa parlare del suo studio.
Ho comunque delle riserve circa questo processo di
ricerca; la prima riguarda la stretta somiglianza con gli studi sui farmaci
condotti dalle industrie farmaceutiche; la seconda riguarda l’inadeguatezza di
questo modello cosi’ rigido ed inflessibile. Inoltre lo vedo come parte di un
progetto commerciale neoliberale con l’intento di confezionare e promuovere i
trattamenti di psicoterapia come se fossero comodita’ che possono essere
acquistate in un negozio. Penso che questo sia un esempio di economia di
mercato usata in un ambito nel quale non dovrebbero, e vengono sostenute da un
tipo di scienza positivista che, a sua volta, e’ usata in contesti in cui non e’
adeguata.
Comunque, segnali di un metodo piu’ sofisticato e
flessibile stanno emergendo, in cui la ‘qualita’ della prova’ sta divenendo un
concetto piu’ complesso. Nel 2016, Steenkamp sostiene che le scelte di
trattamento, in linea con i principi fondamentali della pratica clinica basata
sulle evidenze, dovrebbe essere basata su tre principi:
·
La prova migliore
·
·
La scelta del paziente, e
·
·
L’espereinza clinica
·
Inoltre, sostiene che, a parte il facilitare una processo
decisionale condiviso, una sceta piu’ adatta e’ possibile; per esempio quella
tra i fattori specifici legati ai pazienti ed i trattamenti disponibili. Cio’
sta a simbolizzare uno spostamento significativo da quella che e’ l’inflessibilita’
delle scelte del trattamento algoritmico, basate solamente sui trattamenti
standardizzati ed ‘pazienti uniformati’.
Un fattore che limita ulteriormente il valore degli studi
competitivi e’ la scoperta di come terapie specifiche diverse possono essere ugualmente
efficaci e che la loro efficacia dipenda maggiormente da ‘fattori terapeutici
non-specifici’ che sul tipo di terapia in se stesso. Questo e’ stato dimostrato
molte volte, e risale al verdetto del ‘Dodo-Bird’ (dove tutti hanno vinto ed
ognuno dove avere un premio). Questo fu sostenuto per la prima volta nel 1936
da Rosenweig, poi dimostrato con la
ricerca di Luborsky nel 1975, e da allora continua ad essere elaborato in modi
diversi. Per esempio Lambert, nel 1992, mostra le percentuali relative ai
diversi fattori presenti nei trattamenti psicosociali:
·
La relazione terapeutica 30%
·
·
I fattori esterni 40 %, e
·
·
L’aspettative di/l’effetto placebo 15%,
lasciando
·
·
alle specifiche tecniche terapeutiche il
rimanente 15% di impatto sull’efficacia
·
La mia preoccupazione e’ che questo e’ un po’ come la
questione degli angeli che danzano sulla capocchia di uno spillo. Sappiamo che
la salute e la felicita’ dell’ individuo consiste nella capacita’ di
relazionarsi agli altri, e la ricerca moderna non da’ a questo aspetto - l’ ‘a priori’ - la priorita’ necessaria.
La considerevole e contestata letteratura che critica la
‘evidence-based practice’ va aldila’ dello scopo di questo intervento, comunque
voglio dire che la tendenza verso l’accettare solo ricerche standardizzate ed
aggregate di campioni sempre piu’ grandi sta dirigendosi nella direzione
sbagliata, in quanto si sta allontanando da quella che e’ la comprensione
dell’importanza delle relazioni umane. E sono proprio le comunita’ terapeutiche
che rischiano di soffrirne di piu’ di questo. Al contrario di poter essere
applicabili in modo uniforme su una vasta popolazione, le comunita’ terapeutiche
sono fondamentalmente complesse e, in un certo senso, hanno anche in che di
caotico. Questo pero’, nel vero senso della parola, e’ dove la sua complessita’
porta allo sviluppo di ‘fenomeni emergenti’ (spesso non intezionali) e di un
sistema ‘caotico’ che, come il tempo, non puo’ essere previsto da statistiche
deterministiche, aldila’ del loro grado di sofisticazione. In questo sistema,
ogni individuo e’ riconosciuto per le sue differenze - la sua unicita’ e
specificita’ per esempio - e non per la sua diagnosi. Cosi’ come, ad un livello
successivo, ogni comunita’ terapeutica e’ orgogliosamente diversa l’una
dall’altra, rendendo la specificita’ della ricerca uniformata quasi impossibile.
Per questo motivo abbiamo bisogno di un tipo di ricerca diverso, ed anche se
credo che ancora non sappiamo esattamente di come questo sia, al momento ci
sono progetti di ricerca non-biomedica molto interessanti.
Una ricerca piu’ co-ordinata richiede un maggiore sforzo
in quanto ha bisogno di sostegno sia organizzativo che di quello finanziario. In
questo campo, il sociologo Nick Manning ha evidenziato una ‘politics of data’
(politica dei dati), il cui risultato e’ stato quello di non prendere le
comunita’ terapeutiche come oggetto di studio di ricerca e, che di consequenza
non hanno ricevuto finanziamenti da parte di quelle ‘istituzioni di ricerca’ appartenenti
al campo biomedio o psicologico. Questo tipo di ricerca, siccome non raccoglie
i dati secondo le modalita’ previste, non ottiene finanziamenti governativi; e senza
tenere in considerazione coloro che revisionano articoli per riviste
scientifiche, i quali probabilmente non accetterebbero articoli considerati
‘dissidenti’. Per questo motivo, la visibilita’ delle comunita’ terapeutiche
nella letteratura di ricerca convenzionale e’ scarsa.
Comunque, c’e’ da dire che grazie ai recenti progetti di
ricerca portati avanti dagli utenti (service users led research) forse c’e’
spazio per un po’ di ottimismo. Questi studi, seguendo metodi rigorosi e
sistematici, pongono una notevole attenzione all’esperienza di coloro che si
trovano in posizioni svantaggiose, e fanno fronte a quei temi che, sia i
clinici che gli accademici, hanno in precedenza evitato. Questo va di paripasso
con la ricerca in psicoterapia e gli studi sulla sua efficacia, secondo cui i
risultati sono validi solo in certe condizioni che non esistono nel mondo reale.
Questo e’ un buon momento per le comunita’ terapeutiche ed e’ cosi’ da un po’
di tempo. Qui, tutto cio’ che avviene - i nostri colleghi di ‘Open Dialogue’
chiamano cio’ ‘polyphony’ (polifonia) - e’ visto come un’opportunita’ per
dialoghi che offrono spiegazioni molteplici ma dove nessuna di queste ha lo
stato di verita’ assoluta; e dove, le opinioni di ogni individuo offrono
esperienze differenti che a loro volta possono poi essere usate cone spunto di
lavoro in terapia; e dove, le scelte e le decisioni sono prese secondo una
specie di ‘emotional democracy’ (democrazia emotiva).
Tutto cio’per dire che le relazioni umane, ed in
particolare quelle che si formano all’interno delle comunita’ terapeutiche, non
possono essere “modernised” (modernizzate) secondo protocolli precisi, regole e
controlli di conformita’. Queste rimarranno inevocabilmente complicate,
difficili ed incerte, ma allo stesso tempo variopinte, emozionanti e
divertenti. Questa e’ sicuramente una delle ragioni per cui non vorrei mai
lavorare in ambienti clinici tradizionali dopo aver lavorato una vita
all’interno di comunita’ terapeutiche.
Questo e’ tutto sulla Postmodernita’. Adesso invece, per
la parte conclusiva di questo mio intervento, vorrei proporre l’idea che le
comunita’ terapeutiche sono un esempio eccellente di pratica clinica post-moderna
e dovremmo essere in grado di usarlo a nostro favore. In un certo senso, la
miglior definizione della postmodernita’ che conosco e’ quella di Jean-Francois
Lyotard: “NO GRAND NARRATIVES” (Lyotard, 2001). Sia il tradizionalismo che la
modernita’ hanno le loro “grand narrative”, fatte di spiegazioni
onnicomprensive che hanno l’obbiettivo di giustificare il tutto, predire cio’
che accadra’ ed avere tutto chiaro ed ordinato – igenizzato, contenuto e senza
stati anziosi. Il Post-modernismo riconosce che cio’ e’ impossibile.
Da un punto di vista clinico, questo produce paradossi
come quello del fenomeno della ‘overconfidence’ (presunzione/eccessiva
sicurezza). Per esempio, come quando un membro del personale, e’ sicuro di fare
la cosa giusta, probabilmente ‘sta sbagliando’! E forse, cio’ che accade
secondo un meccanismo relazionale, e’ che lo stesso membro del personale appare
agli altri come se non fosse intenzionato ad aprirsi emotivamente (perche’
cosi’ sicuro di essere nel giusto). Cio’ comunque conduce alla inevitabile
conclusione che forse non e’possibile ‘essere sempre nel giusto’.
Un altro aspetto clinico del “no grand narratives” e’
come i membri delle nostre comunita’, specialmente coloro che hanno ottenuto un
certo grado di autonomia, non sono molto propensi ad ascoltare quando gli viene
detto che cos’e’ meglio per loro o che tipo di sentimenti stanno provando. Queste
persone possono farsi idee da una vasta gamma di stimoli che, per esempio,
includono le loro esperienze personali, l’internet, i libri di auto-aiuto,
l’arte, i racconti dettagliati e profondi degli amici ed infine gli esperti.
Comunque c’e’ da dire che adesso gli esperti non hanno piu’ l’ultima parola.
In un’era caratterizzata dalla ‘New Public Management’
(Nuova Gestione Pubblica), viviamo in un mondo dominato dalla modernita’. Tutte
quelle organizzazioni finanziate dal pubblico, dai servizi sanitari alle
universita’ ai servizi sociali, devono dimostrare sia responsabilita’ che
transparenza rispetto alle specifiche strutture e sistemi di regolamentazione
governativi. Questo e’ una modalita’ monotona che manca di creativita’, e spero
che le comunita’ terapeutiche possano offrire qualcosa di diverso ai nostri
membri, al personale ed all’organizzazione in cui lavoriamo.
Allora, proviamo a dividere i vari approcci verso la
salute mentale in tre categorie: tradizionali, moderni e post-moderni. L’approccio
‘Tradizionale’ che e’ il vecchio sistema
del manicomio e delle grandi istituzioni con gerarchie rigide e dove il potere
e’ tutto nelle mani dei professionisti, di solito i dottori. L’approccio ‘Moderno’ e’ quello del ‘New Public
Management’ o, come alcuni lo chiamano, ‘performativity’ (la migliore
performance), dove tutto e’ stabilito e controllato con esattezza, dove ci sono
protocolli scritti per ogni variazione/divergenza od eccezione fatta o per
qualsiasi inadempienza, e dove l’efficacia, la performance ed i risultati
possono essere esattamente misurati e verificati. Qui il potere e’ nel sistema
che e’ democraticamente responsabile. Infine, l’approccio ‘Post-moderno’ che e’ molto piu’ difficile e critico, e molto piu’ simile
alle caratteristiche delle comunita’ terapeutiche che ho descritto. Ma siccome e’
basato sulle relazioni umane, nonstante la sua creativita’, spontaneita’ ed
anche forse un po’ di anarchia, e’ in un certo senso il piu’ difficile da gestire.
Ma forse sono proprio questi gli aspetti che rendono la vita degna di essere
vissuta o un lavoro degno di essere fatto. Qui, il potere e’ fluido anche se
deve essere contenuto all’interno di una struttura contenitiva.
Per concludere, vorrei che tutti noi celebrassimo questo
modo di lavorare che segue il ‘Moral Treatment’ (il trattamento morale) del
18esimo secolo quando pochi illuminati riconobbero che le persone con disturbi
di salute mentale avevano bisogno di essere trattati come esseri umani. Questo
stesso pensiero fu ancora una volta rivisitato negli anni ’60 con il movimento
italiano ed inglese dell’antipsychiatry.
Oggi, 50 anni piu’ tardi, cerchiamo di fare la stessa
cosa. Lo stiamo ancora facendo nelle comunita’ terapeutiche e negli Enabling
Environments (ambienti abilitanti), ed anche qui in Sicilia con il Visiting
Project. Credo che adesso sappiamo come costruire la struttura contenitiva
all’interno della quale, il potere dello Psichiatra puo’ essere esercitato con
compassione ed umanita’.
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